Sandokan
di Antonella Lattanzi
http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/02/intervista_escl.html
“l’uomo che ha sfidato lo Stato diventando due volte padre durante cinque anni di latitanza […] l’uomo che si faceva chiamare Sandokan per la sua ferocia proprio come la Tigre di Mompracem e come la Tigre di Mompracem aveva lunghi capelli e barba nerissimi lo stesso uomo anche se con trenta chili in più e senza la barba di salgariana memoria ha avuto paura quando dopo tredici ore di ricerca lo hanno scovato nel suo covo dorato”
Nanni Balestrini, Sandokan
1. Sandokan – storia di camorra. Il libro e lo spettacolo teatrale.
Il libro
Nanni Balestrini
Sandokan – storia di camorra
2004
Einaudi, Torino
pp.130
euro 13
Lo spettacolo
Antonio Catania
in
Sandokan
dal romanzo di Nanni Balestrini
Musiche dal vivo di Peppe D’Argenzio
Adattamento e Regia di Nello Correale
Luci – Laura de Bernardis
Questa è la storia realmente accaduta di un paese intero del casertano progressivamente usurpato dal potere violento e sanguinario della camorra. Usurpato il paese, intendo, in tutto e per tutto. Usurpata, risucchiata una comunità enorme, formata non solo dai camorristi in sé per sé ma anche da tutti i loro adepti – il paese intero, per dirla tutta. Adepti, appunto, “affiliati” – dice l’io narrante –, come si trattasse di religione. Non di una religione sana, ma quasi di una setta, di qualcosa di esoterico e forte, di magico, di ancestrale, di archetipicamente mostruoso, qualcosa di malato che presupponga rapporti di forza molto violenti, e parole cattive come “tradimento”, “affiliazione”, “punizione”, “rappresaglia”, “morte”. La religione della camorra. Camorra che, in questo libro – e nella realtà – è una comunità grandissima, basata su una miscellanea di “valori” al negativo, valori distorti, a metà tra la famiglia, la religione, la magia nera, l’esercito, la dittatura, la servitù, il feudalesimo, e anche molto razzismo. Quella che impazza in questo paese – e altrove – è una sorta di continua guerra civile, combattuta con il supporto della comunità tutta (con l’appoggio della chiesa, della politica, della famiglia, dei singoli individui), a suono di morti violente, di traffici di droga, di “contratti di morte”, di vestiti firmati.
Questa è la storia di un grande, cattivissimo boss mafioso, Sandokan, così chiamato per i suoi folti baffi, il volto abbronzato, i lunghi capelli, la somiglianza con Kabir Bedi, ma soprattutto per il suo essere feroce guerriero, indomito carnefice, sprezzante del pericolo. In due parole, la Tigre del Mompracem. La storia di questo paese sembra segnata dalla notte dei tempi. Del resto, la mafia in Italia ha radici così antiche che nemmeno gli italiani le ricordano più.
Questa è la storia di un bambino molto solo, che decide di raccontare le cose che succedono nel suo paese. Racconta tutto, con tono pacato, anzi sottotono, eppure gridando. E con momenti tanto lirici da risultare strazianti. Racconta come se non avesse paura e, allo stesso tempo, come se fosse ormai così solo ed estraniato e alienato da tutto da non aver più neanche bisogno di temere qualcosa. Tanto nessuno lo ascolta. Nessuno lo vede. Il linguaggio qui è infatti un misto di socio-antropologico – quando l’io narrante racconta i vari “periodi” della presa di potere del clan –, di lirico, ironico, grottesco. Questa pluralità di codici, questa plurivocità, questa miscellanea di generi, però, non produce una sorta di accozzaglia di elementi distinti l’uno dall’altro che mal si compongono. Al contrario, qui come altrove nella letteratura di Balestrini, lo scrittore di questo libro, gli stili, le parole, si combinano, si amalgamano, quasi magicamente, formando un libro che è uno e plurimo e che, con il suo stesso ritmo, con il suo stesso linguaggio, per sua stessa natura, denuncia. Nel caso particolare, inoltre, il parlato serve anche ad annullare lo scarto, il muro, esistente tra emittente e destinatario. Per una sorta di competenza comune (si sta parlando della nostra vita di ogni giorno, checché se ne dica!), in Sandokan, il lettore e lo scrittore sono sullo stesso piano, come avessero la stessa importanza. Il risultato è che ognuna delle due figure portanti della comunicazione riveste una funzione particolare, attiva, all’interno del libro, cosicchè il lettore non è più solo un ricettore, ma anche un attore. Non c’è, qui, solo un percorso lineare, univoco, che, dall’emittente, attraverso la comunicazione del messaggio, porti “qualcosa” al lettore, comunicandogli una propria idea, un proprio messaggio. Il percorso è, al contrario, perfettamente biunivoco e il lettore – laddove accetti di svolgere una funzione attiva, di partecipare – viene portato a restituire una sorta di feedback allo scrittore, a compenetrarsi nella storia. Il tutto in maniera molto naturale. Per di più, l’io narrante di Sandokan racconta così dall’interno che, leggendo il libro, si ha l’impressione che il narratore anonimo, il narratore “collettivo” sia proprio lo stesso scrittore, Nanni Balestrini. Si ha l’impressione che Balestrini abbia visto, abbia sentito, vissuto, percepito tutta la vicenda. Che sia cresciuto in questi luoghi. E che, proprio per questo, sia riuscito a non raccontare “i fatti” oggettivamente, ma contaminandoli con una voce, uno stile, un linguaggio – in questo caso destrutturato e destrutturante – assolutamente personale. Sembra che, insomma, il coinvolgimento psicologico ed emotivo abbia contagiato le parole, instillando nella scrittura un codice diverso, deformandola, rendendola a un tempo ossessiva, lirica, grottesca, umoristica, drammatica, proprio grazie alla comprensione emotiva del protagonista. Sembra che la storia così com’è avvenuta e raccontata sia una sorta di fotografia dai confini ben tracciati, e che l’io narrante – e, dietro l’io narrante, lo scrittore – l’abbia sottoposta a un’azione deformante, che lascia intatti i fatti, ma ce li fa percepire in maniera diversa, più profonda. Fa pensare a quello che disse Antonio Catania, l’attore che interpreta a teatro l’io narrante – vent’anni dopo –, nell’intervista rilasciatami qualche settimana tempo fa1: qualcuno, trovandosi di fronte a Sandokan, potrebbe pensare di stare per leggere – o assistere, nel caso della traduzione teatrale – una storia che conosce, che conosciamo tutti: la storia della camorra, con i suoi codici prestabiliti e imprescindibili, con i suoi schemi che si ripetono mille volte. Questo qualcuno, invece, va a teatro, o legge il libro, e si rende conto che quella di Balestrini è tutta un’altra storia, una storia che ascoltiamo qui per la prima volta, nella quale penetriamo, ferendoci, come mai prima d’ora. La scelta di tradurre il libro in spettacolo “in un modo particolare” – “un po’ sottotono, senza eccessiva enfasi”, dice Balestrini, anche lui molto contento della resa – a mio avviso si sposa perfettamente con l’anima stessa dell’opera originale. Tutto quello che nel testo scritto è racchiuso, reso perfettamente, intimamente, nella successione, nella disposizione delle parole, nel linguaggio, nella morfologia del testo, e poi nel contenuto che il lettore percepisce, nella storia che il lettore immagina a tu per tu con se stesso, tutto questo, spesso, in teatro potrebbe tradursi – come spesso avviene – in una forzatura iper-enfatica che snatura il libro, il racconto, il testo scritto, rendendolo, appunto, iper-comico, iper-drammatico, iper-tragico. In una parola sfalsandolo, laddove invece, per esempio, Balestrini in Sandokan, cerca appunto una resa trasparente della realtà, o meglio del parlato comune, collettivo. La resa teatrale di Catania sulla scena ha invece rispettato il testo al 100%, risultando di stimolo allo spettatore che, un po’ come nel libro, in cui l’io narrante dialoga con il lettore, si trova anche a teatro ad ascoltare una storia che un uomo sta raccontando sulla scena, in maniera molto naturale, colloquiale – e per questo in modo molto più complesso di quanto possa avvenire scegliendo una resa enfatica, eccessiva –. Ancora una volta in teatro (come prima nel libro ) viene lasciato molto spazio al feedback, all’immaginazione, alla compartecipazione attiva dello spettatore. Del resto, io credo che alla base di Sandokan ci sia una sorta di dialogo con il lettore. Di conseguenza, l’enfatizzazione avrebbe scassinato il senso stesso dell’opera.
Questa è la storia di un clan camorristico, che ha tra valori fortissimi: la famiglia, la religione e la televisione. In senso esteriore, o forse malato, o meglio distorto – con tutto un altro codice rispetto ai non camorristi, ai non mafiosi –, da un certo punto di vista altro, i valori della camorra sono quelli che noi non abbiamo più. Da qui, sia l’importanza della televisione come collettore sociale e, allo stesso tempo, strumento di alienazione totale, sia l’enorme rilevanza delle figure religiose – la Madonna, Gesù – viste in maniera quasi mitologica, magica. Figure che perdono il loro valore animico, mistico, spirituale, per acquistarne un altro pragmatico, mitologico, quasi da divo, svuotandosi completamente di significato. È come se di tutto (famiglia, religione, legami sociali) rimasse solo l’involucro – la vuota parola Gesù, con tutta una serie di sovrastrutture sociali, consumistiche, annesse (come le processioni, le feste, i pranzi, i regali, eccetera) –, e se ne perdesse completamente il senso primigenio – la pietà, la fratellanza, l’amore eccetera. Anche per quanto riguarda la famiglia, il discorso è molto complesso. È come se, al di fuori della camorra, oggi la famiglia avesse perso gran parte del suo valore originario, non fosse più il tessuto connettivo della società, l’istituzione per eccellenza, veicolante valori veri, intramontabili, che assicurano agli individui protezione “buona” (non camorristica, umana), amore, proprio contro l’alienazione della società di oggi. Per la camorra, no. La famiglia è ancora il nucleo fondamentale sul quale si fonda la vita queste persone. Si tratta, come dicevo prima, di una serie di significati, di contenuti annessi al significante “famiglia”, al contenitore “famiglia”, molto diversi da quelli che, di solito, gli annettiamo, o meglio gli annettevamo, noi (“famiglia” come amore, comprensione, affetto, appoggio). Dal punto di vista della camorra, invece, “famiglia” significa onore, legami basati sulle armi, sul sangue, sulla violenza, sulla morte. Quasi tutte le famiglie del paesino protagonista di questo libro hanno avuto un morto in casa, dice l’io narrante. La morte, allora, come componente quasi necessaria del concetto di famiglia camorristico.
Questa è la storia di un bambino che cresce e, mentre lui cresce, la potenza e la virulenza del clan dei Casalesi, padroni del suo paese, crescono insieme a lui. Solo che lui non va a giocare con il giovane Ernesto Bardellino, il cui cognome tuona potente e terribile come quello di Zeus per le lande di tutta l’Ellade. Questa è la storia di un bambino che diventa uomo e vede cose tremende. E si accorge che la morte è ormai diventata di casa, nel suo paese. E che ai vertici della politica ci sono dei signori corrotti, che cantano e ballano come nei musical anni Cinquanta con camorristi sindaci.
Questa è una storia vera, la conosciamo tutti fin troppo bene. E’ la storia della Camorra. È la storia di un popolo. È la storia della presa di potere di un altro Stato, uno Stato criminale, laddove lo Stato istituzionale indietreggia e scompare, come inghiottito dalle sabbie mobili delle collusioni sanguinarie, ma silenziose e suggellate da taciti accordi che segnano il destino di un Paese intero. È una storia che vediamo ogni giorno, di cui conosciamo ormai finanche i retroscena. Ma, come dice Antonio Catania, spesso crediamo di sapere le cose, ma poi scopriamo che non è così, che un libro come Sandokan – storia di camorra ha ancora molto da raccontarci. Molto da stupirci. Troppo ancora da farci arrabbiare. Spesso crediamo anche che l’io narrante di un libro sia qualcuno che non conosciamo. A volte è così. Altre volte, invece, come dimostra Nanni Balestrini, che questo libro l’ha scritto, se andiamo a scavare un poco più in fondo, se accettiamo di intraprendere “l’avventura del lettore” insieme allo scrittore, scopriamo che non è così. Che l’io narrante, anonimo, di questo libro, è un io collettivo. È un io naturale. È la voce che tutti avremmo se non fossimo come mutilati dalla paura di parlare.
Questa è una storia che comincia con la caduta dall’Olimpo di un grande dio del male, il sanguinario, mitico Sandokan, finalmente catturato dalla polizia dopo una lunga latitanza, in cui ha trovato anche il modo di avere dei figli. Un dio malvagio fatto uomo nel momento della fine, che suda e trema come tutti noi. Ma non c’è nulla da temere. La mafia non muore mai. La mafia non è mai un uomo solo.
Intervista a Nanni Balestrini
A.L.: Buongiorno! Una delle caratteristiche che salta subito all’occhio leggendo il Suo libro è che Sandokan, il grande boss sanguinario, che non vediamo quasi mai durante tutto il corso del libro, abbia due nomi – il soprannome, quasi mitologico, e il nome di battesimo –, mentre l’io narrante, vero protagonista della storia, rimanga anonimo.
N.B.: Sandokan è un soprannome. Come si vede più volte nel libro, tutti i camorristi hanno un soprannome, che può essere molto semplice – come Mimmo, da Domenico –, oppure più complesso, come il Fuggiasco (ce n’è uno nel romanzo che si chiama così). Sandokan, il cui vero nome è Francesco Schiavone, ha questo soprannome perché si vantava di assomigliare all’attore che aveva interpretato il film Sandokan, Kabir Bedi. Che l’io narrante non abbia nome, invece, ha una motivazione ben precisa. Succede anche in altri miei libri, come Vogliamo tutto e Gli invisibili: c’è sempre una voce narrante che non ha nome. Questo succede perché, soprattutto in quelle storie – ma anche in questa –, a me interessa che i personaggi siano dei personaggi collettivi, cioè non rappresentino una persona precisa, individuale, diversa da tutti gli altri, ma un personaggio che esprima anche molti altri personaggi simili a lui. Nel mio libro Vogliamo tutto, i protagonisti sono degli operai, allora l’operaio dice delle cose, le racconta, le esprime, come le racconterebbero anche tanti altri che sono uguali a lui. Nel mio libro Gli invisibili la voce narrante è quella di un giovane militante politico del movimento, ma quello che lui dice è quello che lui fa, e lo dicono e lo fanno tanti uguali a lui. Il nome lo differenzierebbe, il fatto di non mettergli nome lo rende una voce collettiva.
Nel caso di Sandokan, invece, quella che racconta è la voce di un abitante del villaggio, che parla a nome del suo paese: ciò che lui dice esprime quello che è l’animo di tutti gli abitanti del paese. In un certo modo, l’io narrante di questo libro è un po’ diverso da quelli degli altri libri, perchè la storia che si racconta non è la storia di Sandokan, non è nemmeno la storia dei camorristi, che sono un po’sullo sfondo, ma è la storia di questo paese che è un paese schiacciato, in balia della delinquenza. Allora, la voce di questo ragazzo è una voce che si leva contro, è una voce che si potrebbe dire, contrariamente a prima, abbastanza individuale, perché in fondo nel paese tutti sono conniventi con la camorra, oppure stanno zitti, fanno finta di niente, per paura, e alcuni addirittura ne approfittano. Quella dell’io narrante, però, è la voce naturale: dice le cose, ha le reazioni, e ha pensieri e sentimenti che tutti dovrebbero avere se non avessero paura. E’ la voce etica, morale, che dovrebbero avere tutti gli abitanti. Per cui non è vero che lui dice o fa delle cose perché è un personaggio strano, un diverso: forse utopisticamente quelli dell’io narrante dovrebbero essere il pensiero e la morale di tutti.
A.L.: Proprio per questa sua caratteristica di non connivenza, l’io narrante è molto solo, straniato, alienato persino da se stesso. Infatti, per la sua scelta di non cadere nelle maglie della mafia si ritrova del tutto avulso dal contesto in cui vive, e per tutto il libro la solitudine cresce, arrivando anche a livelli patologici. Lei scrive infatti: “il problema è che quando ti sembra che tutti siano stronzi salvo te cominci a chiederti se il vero stronzo non sei proprio tu cosa di cui poi ti convinci e non esci più di casa non vedi più nessuno quindi finisce tutto finisce la bella amicizia con questo Vittorio stronzo traditore che mi ha sostituito con un altro e non riesco a trovare altri amici non guardo più le ragazze e così non esco più di casa non vedo più nessuno”.
N.B.: Certo. E poi si tira fuori. Alla fine non gli resta altro che andarsene.
A.L.: C’è questo bellissimo capitolo iniziale, in cui Sandokan appare come un eroe decaduto, un eroe del male ormai in completa disfatta. È l’unico brano in cui Sandokan sembra un uomo vero, vive le paure, le passioni, i dolori anche fisici di una persona vera, e non di un mito del male.
N.B.: Il primo capitolo è un po’ come un’introduzione, infatti avevo pensato di stamparla con un carattere diverso, in corsivo, ma poi è rimasta così. E’ un’introduzione perché qui non è la voce del ragazzo che parla: si tratta invece della scena dell’arresto di Sandokan, una scena tutta costruita sui giornali. Nel corso del capitolo ci sono infatti molto ripetizioni, proprio perché ho preso diversi giornali e ho fatto un collage di quello che i vari giornalisti raccontavano. Per questo ci sono prese di posizione, com’è naturale che sia, infatti ognuno racconta la storia in una maniera leggermente diversa. Mi piaceva questa cosa, come dare una sfaccettatura a questo racconto. Questo capitolo è una sorta di finale inserito all’inizio. Sandokan viene catturato in modo rocambolesco, lo trovano nel sotterraneo in cui viveva, scavato sotto la sua casa, e così si conclude la sua carriera. Lo arrestano, gli danno sette ergastoli, va in prigione e ci resterà moltissimo – forse non per sempre, ma per moltissimo tempo. Però la camorra continua, perché dopo Sandokan ci sarà un altro boss: non è di certo questo arresto che fa cambiare le cose. Anche senza Sandokan, la banda chiamata dei Casalesi continua il suo dominio sul territorio, i loro affari prosperano, vanno avanti normalmente, i mafiosi continuano anche a uccidere e a fare le stesse cose che facevano prima.
A.L.: Dall’inizio della sua “carriera” (anche se è riduttivo chiamarla così), Lei ha sempre e comunque, attraverso lo scardinamento del linguaggio e la profonda rivoluzione dei temi trattati, comunicato con le Sue opera una fortissima idea di denuncia. A partire dagli anni Cinquanta, dai suoi “esordi”2, poi tra il ’56 e il ’59 con la rivista-cardine della neoavanguardia, “Il Verri”3, di cui è stato redattore4, poi con la sua prima raccolta di poesie del ’61, Il sasso appeso5, ancora nel ’61 con l’antologia I novissimi6 e con Tape Mark I7, poi col Gruppo 63 e qundi con Vogliamo Tutto8, ancora dal ’74 col ciclo della Signorina Richmond, quindi con Gli Invisibili9 e via dicendo, la Sua denuncia si esplicita sia nel contenuto del testo, sia nel linguaggio che, in particolare in Sandokan, comunica l’idea del respiro, di qualcosa che si blocchi e poi riprenda. Il Suo linguaggio è sempre una vera e propria “rivoluzione”, un’avanguardia, uno scardinamento totale.
N.B.: Sì, io trovo che sia importante che coincidano, come diceva Sanguineti nel suo famoso titolo, Ideologia e linguaggio: devono essere la stessa cosa. Se si scrive su argomenti di opposizione, di contestazione, anche il linguaggio deve collocarsi in un certo modo rispetto al linguaggio corrente, al linguaggio abituale. Dev’esserci una corrispondenza tra lingua e temi affrontati, altrimenti si fa del puro contenutismo e questo secondo me esula dalla letteratura, poichè la letteratura si fa attraverso la scrittura, attraverso il linguaggio: è un vero e proprio lavorare sul linguaggio. Se si raccontano soltanto delle storie, e non si fa letteratura, il linguaggio è meno lavorato. Per esempio, ciò accade nel libro di Saviano, Gomorra, che è un libro importante, interessantissimo, però Saviano è un bravissimo giornalista, si tratta di un reportage, quindi si colloca in un altro settore che non ha a che fare con la letteratura, perchè racconta semplicemente delle cose. In letteratura, un piano si lega all’altro. In Sandokan mi interessava attuare un’operazione sul linguaggio – come si nota a prima vista –, anche attraverso questa maniera di scrivere, per esempio, senza punteggiatura. Questa è una caratteristica che ho usato anche in altri libri, ma secondo me funziona quando c’è l’idea di una voce che parla direttamente, che si rivolge direttamente al lettore. Allora, io credo, questo flusso verbale senza punteggiatura dà l’idea della lingua parlata, dell’oralità. Per questo lo faccio.
A.L.: Penso che Lei si sia dovuto documentare moltissimo per arrivare a scrivere questa storia così “dal di dentro”, e per scriverla con un tale ricchezza di particolari, con tale precisione ma, allo stesso tempo, proprio attraverso una sorta di “flusso di coscienza”, con una naturalezza estrema, come se la materia davvero la conoscesse dall’interno, come se l’avesse conosciuta in prima persona, come l’avesse vissuta davvero.
N.B.: Sì, principalmente questo personaggio – che esiste veramente – mi ha ampiamente raccontato la sua storia.
A.L.: Lui in persona?
N.B.: Sì, la trama non è un’invenzione, quello che è scritto nel libro è tutto vero, con qualche piccola contaminazione, qualche piccola aggiunta che ho tratto dai racconti di altre persone. Per il 70-80%, però, tutto il racconto viene da una persona precisa. Questo per quanto riguarda le vicende del personaggio. Per tutto il resto, invece, mi sono documentato: ho letto i giornali, qualche libro anche, e poi mi sono procurato tutti gli atti del processo che si è tenuto due anni fa, un grande processo che si chiamava Spartacus 1 e 2, in cui hanno processato tutta questa banda che avevano arrestato, tra cui anche Sandokan. I componenti della banda, alla fine, hanno avuto un mucchio di ergastoli, però ne sono rimasti fuori abbastanza da continuare tranquillamente a delinquere.
A.L.: Nel Suo libro si vede molto chiaramente come la camorra abbia fortissimi legami sia con la famiglia che con la religione. Per quanto riguarda la religione, per esempio, mi riferisco all’episodio in cui si parla della processione della Madonna, ritardata, a dispetto di una tradizione secolare, di un paio d’ore, per permettere all’intera popolazione – e anche al parroco stesso! – di seguire una telenovela molto in voga in quegli anni. Per quanto riguarda la famiglia, invece, mi riferisco a tutta una serie di rapporti basati sulla violenza, sul sangue, sulla morte.
N.B.: Sì, è vero, infatti la mafia si chiama anche La Famiglia. L’immagine di questo rapporto tra le persone che diventa un rapporto quasi di sangue – anzi, una volta c’era proprio il “patto di sangue”, i mafiosi si bucavano un dito per mescolarsi il sangue a vicenda – è legata al concetto di fedeltà assoluta: non bisogna tradire, chi tradisce viene ammazzato. Dunque, è anche qualcosa di più della famiglia. Va bene, anche nelle famiglie “normali” si ammazza abbastanza, però qui si è quasi obbligati a farlo, quando qualcuno tradisce, o “si pente”. È quasi un passaggio obbligato e, se non riescono ad ammazzare lui, ammazzano i familiari, i parenti, tutti. Per cui, per i camorristi, l’idea della famiglia, del legame, è un’idea molto particolare, è la loro. Loro hanno un attaccamento molto speciale, una serie di fortissime tradizioni. Secondo me sono molto conservatori rispetto a quelli che sono i valori, la morale, perché questo tipo di condotta gli serve per cementare i loro rapporti, le attività mafiose. Questi loro valori morali di stampo antico servono per mantenere l’ordine, per mantenere la sottomissione delle persone. E tutto questo lo utilizzano naturalmente, gli viene naturale utilizzarlo.
A.L.: Nel libro risalta, infatti, una forte contrapposizione tra il protagonista – solo, estraniato, alienato anche da se stesso, in maniera patologica, ormai – e la comunità, che per la maggior parte sceglie l’omertà o la partecipazione.
N.B.: Sì, tutto il resto del paese è più o meno connivente, perché quello che manca sono le Istituzioni, è lo Stato. In genere, infatti, dovrebbe essere lo Stato a mantenere quello che si chiama “il legame sociale” ma, se lo Stato non c’è, se è assente, viene costruito dai camorristi, però con un obiettivo criminale. L’obiettivo che hanno è di portare a termine tutti i loro traffici illeciti.
A.L.: Io penso che in questo libro, come in tutti gli altri, Lei sia molto coraggioso. Affronta sempre temi scottanti, e importantissimi, in un modo sempre così profondo e appassionato. Temi che, di rimando, l’hanno colpita non poco sul piano personale. Nonostante tutto, però, proprio per questa funzione sociale che secondo Lei – e anche secondo me! – ha la Letteratura, Lei ha continuato, ha perseverato, nella Sua “battaglia”, nella Sua strada personale, sprezzante del pericolo come un vero eroe, e soprattutto sempre con risultati bellissimi, avanguardistici, sia sul piano della forma che del contenuto. Perseverare nelle proprie idee secondo me è la misura del vero artista, del vero scrittore, del vero talentuoso. Di chi la Letteratura, l’Arte, le vede come una necessità, un impegno da cui non ci si può, o meglio non ci si vuole, sottrarre. Nonostante tutto.
N.B.: I temi che si scelgono sono quelli che si sentono di più, quelli che più ci sono connaturati: ce ne sarebbero tanti altri. A me interessa trattare questi temi che, come dicevo prima, hanno un carattere collettivo. Non temi personali, individuali, non storie inventate. C’è una gran quantità di romanzi, la maggior parte probabilmente, che racconta storie individuali, storie personali. Per carità sono importantissime, sono tra i migliori libri che siano stati scritti, no?, libri in cui gli individui si rapportano con gli altri individui, con la società. Però a me interessa un’altra cosa che è, invece, parlare di collettività, di cose che riguardano strati sociali, ambienti.
A.L.: Per quanto riguarda questo libro, per esempio, ma in generale per quanto riguarda tutta la Sua produzione, come dicevamo prima, io credo che il linguaggio serva ad esprimere proprio questa Sua caratteristica, questo Suo interesse collettivo.
N.B.: Sì, perché questo vorrebbe essere un linguaggio vissuto, un linguaggio parlato, che si esprime direttamente, spontaneamente.
A.L.: Quando e come ha pensato di tradurre Sandokan in un’opera teatrale? Ho letto che quella con Antonio Catania non è la sola traduzione, ma che c’è anche un “precedente”: appena pubblicato il libro ne avete già portato un monologo a teatro. E’ vero?
N.B.: In quel caso io non ho fatto niente. Un ragazzo che fa teatro a Caserta mi ha chiesto l’autorizzazione per trarre, anche lui, un monologo dal libro, ma ha messo in scena soltanto il pezzo del macero10. Non ho visto la rappresentazione dal vivo. Lui me ne ha mandato un nastro. So che l’ha portato in molti paese della Campania, e anche in qualche altre zona d’Italia.
Per quanto riguarda questa rappresentazione, invece, è stato Antonio Catania ad avere l’idea. Me l’ha proposto, ci siamo visti, ne abbiamo parlato. Lui era molto interessato a portare a termine il progetto, ma si presentava, per lui e per il regista, un problema di traduzione. Io gli ho detto che secondo me la cosa migliore era che la progettassero loro, questa riduzione. Poi me l’avrebbero fatta vedere e ne avremmo parlato. Loro, allora, hanno scelto di usare dei brani qua e là cuciti insieme, che compongono, alla fine, una sorta di percorso. Il problema era che Catania, per l’età, non poteva interpretare il protagonista della storia, l’io narrante, che è un ragazzo. Per cui tutto è stato trasposto al passato, come se lui raccontasse cose accadute vent’anni prima. Il che potrebbe anche essere, nella realtà: tutta la storia del libro si svolge infatti negli anni Ottanta, per cui sono vent’anni fa, e vent’anni fa Catania aveva l’età giusta. Adesso, vent’anni dopo, racconta quello che gli è capitato quando era giovane. Loro hanno messo su questo canovaccio, questa scelta, me l’hanno fatto vedere, abbiamo operato qualche piccolo aggiustamento, ma praticamente andava già bene così. Io l’ho trovata ottima ed è quella che è stata messa in scena.
A.L.: A marzo, invece, lo spettacolo sarà a Milano.
N.B.: A marzo sarà a Milano in un teatro più grande, per cui ci sarà un problema di scenografia. Si tratta, infatti, di un palco molto più ampio di quello di Roma11, per cui Antonio Catania si dovrà anche un po’ muovere, si dovranno aumentare anche gli elementi di regia. Probabilmente, anzi sicuramente, ci sarà anche una scena più composita, qualcosa sullo sfondo, una scenografia. Non sarà solo uno sfondo nero, come invece è stato per Roma. Vedremo di inserire qualche novità – delle proiezioni, per esempio. Ad ogni modo, io penso che rappresentare per la prima volta lo spettacolo qui a Roma sia servito come rodaggio, anzi più che rodaggio, perché poi mi sembra che, a detta di quelli che l’anno visto, lo spettacolo sia venuto bene. Mi sembra che tutti sian stati molto contenti di com’è stato realizzato.
A.L.: Anch’io l’ho trovato bellissimo.
N.B.: Io trovo che Catania sia molto bravo, ha reso il tutto nel migliore dei modi. Trovo che sia stata ottima anche la scelta di recitare il tutto un po’ sottotono, senza enfasi.
A.L.: Sono d’accordo. Io penso che lo scarto tra la narrativa e il teatro, a volte, si traduca in una sorta di forzatura del testo scritto, di eccessività, di “troppa enfasi”, appunto, come diceva Lei.
N.B.: Sì, qui sarebbe stato facile fare un’operazione del genere, dare sfogo, rendere emotivo il tutto. Invece recitarlo un po’ sottotono secondo me serve a trasmettere meglio le emozioni, il libro stesso.
A.L.: Nel corso dello spettacolo si instaura una sorta di dialogo tra attore e pubblico, di mutuo scambio, così come Lei nel libro intendeva dialogare col lettore.
N.B.: Anche lì è stata una idea di Catania renderlo in questo modo, io non sono intervenuto per niente.
A.L.: Lei ha già lavorato in teatro, performance teatrali, e soprattutto nel campo dell’arte visiva12. Questa contaminazione tra le varie arti credo conferisca un valore aggiunto alla Sua opera, una sorta di visione tout-court.
N.B.: Qualcosa sì, non ho fatto tanto teatro. Più che altro, nell’ambito della poesia, a un certo punto si è quasi obbligati a recitarla in pubblico. Però appunto io trovo che se c’è un attore è importante che sia lui a sentire come deve rendere, tradurre, recitare il lavoro, perché è la cosa migliore: l’attore deve sentire qualcosa dentro. Se poi non sa come farlo, allora vuol dire che non gli interessa tanto.
A.L.: Dato che Lei vive da molto tempo tra Roma e Parigi, mi piacerebbe sapere come percepisce lo scarto culturale tra l’Italia e la Francia – se c’è –, quanto è attivo il contesto, il tessuto culturale italiano rispetto a quello francese. Dal punto di vista artistico, letterario, si percepisce tanto la differenza?
N.B.: Io credo dipenda un po’ dai momenti. Adesso, in questi anni, l’Italia è un po’ sottotono, è un po’ vuota di cose, non è un momento molto ricco, molto inventivo, penso. Non è che in Francia succedano delle cose straordinarie ma, insomma, a un livello normale, mi sembra. L’Italia invece è un po’ ferma… Ma passerà, come succede sempre. E’ normale che ci siano delle alternanze, dei momenti buoni, dei momenti cattivi. Succede sempre.
A.L.: Quali sono i suoi autori preferiti (parlo di cinema, teatro, letteratura, poesia)?
N.B.: Io ancora mi considero un poeta, perché anche i miei libri sono sempre fatti con un’attenzione formale che è più della poesia che del romanziere, del narratore. Mi sono formato sui poeti più importanti, come Rimbaud, Pound, in Italia Palezzeschi. Posso dire che sono un po’ questi gli autori che mi hanno formato. E’ normale scegliersi dei punti di partenza – non voglio dire dei modelli, perché poi si fanno delle cose diverse –, però, per me, i punti di partenza sono stati soprattutto questi poeti. E poi, rispetto a questo, ho sviluppato il mio modo personale di scrivere. Anche i romanzi di cui abbiamo parlato sono stati un po’ un’evoluzione naturale dalla mia poesia. Certo, ho introdotto in modo molto forte delle storie, delle vicende, dei personaggi, ma questo è normale se si vuole scrivere un libro che si vuole chiamare romanzo: non si può fare senza.
A.L.: Un’altra delle cose che veramente ammiro tanto di Lei è che non si è mai fermato, non c’è mai stato un momento della Sua vita in cui ha detto, Adesso io ho raggiunto una maturità artistica e non sperimento più, non vado più avanti. Dall’inizio, con il Gruppo 63, poi la prima poesia elettronica, poi Vogliamo tutto e così via, quello che Lei ha fatto e fa tutt’ora in qualche modo ha cambiato e cambia la storia della letteratura. E’, di volta in volta, sempre un’ulteriore punto di svolta che crea i presupposti per una serie di scritture, di modi di fare arte che si dipartono a stella dalle sue innovazioni, e che prima di Lei non esistevano.
N.B.: Beh, adesso non è che io cambi la storia della letteratura, sono piccoli apporti… Uno lo fa anche per divertirsi un po’, perché far sempre le stesse cose sarebbe molto noioso. Bisogna sempre cercare di farne una nuova… quando riesce!
A.L.: Lei ha anche fondato da poco una rivista telematica13. È molto bello che abbia un’apertura continua a tutte le varie innovazioni, che riesca a trovare l’anima in queste nuove tecnologie, come internet, che per certi versi potrebbero sembrare, a primo acchito, media freddi, strumenti freddi, senza possibilità di contaminazione, di uso artistico ed emozionale.
N.B.: Beh, facciamo il possibile!
A.L.: Prima di chiudere, vorrei sapere se c’è qualcosa che vorrebbe dire e che io non Le ho chiesto.
N.B.: Per ricollegarmi al teatro, vorrei dire che mi ha fatto molto piacere la messa in scena del mio testo, e mi piacerebbe anche che altri miei libri, come Vogliamo tutto e Gli invisibili, di cui abbiamo parlato, in futuro potessero essere messi in scena, perché penso si prestino alla traduzione teatrale, dato che sono tutti basati sul linguaggio parlato. Questo offre già la materia prima al teatro. Sarei contento se questo avvenisse.
A.L.: Adesso a che cosa sta lavorando? Quali sono i Suoi progetti?
N.B.: Adesso sto lavorando molto sull’arte visiva, sto facendo delle mostre, sto lavorando da questo punto di vista. Non ho un libro in programma…, sì sto scrivendo, ma non ho una cosa precisa a breve scadenza.
A.L.: La ringrazio tantissimo. È stato veramente un onore.
N.B.: Grazie anche a lei!
Roma, 1 febbraio 2007
1 Intervista del 15 gennaio 2007 pubblicata sul sito Einaudi Roma al seguente indirizzo: http://www.einaudiroma.it/persone/r&i.html
2 fra il ’53 e il ’56 pubblica poesie su «Mac Espace», rivista di Gillo Dorfles.
3 di Luciano Anceschi,
4 in questi anni collabora anche alle riviste il «Gesto» e «Azimuth»
5 edita da Scheiwiller, costituirà un elemento base della poetica di Balestrini
6 di cui Balestrini è anche curatore insieme ad Alfredo Giuliani, e che raccoglie poesie Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Edoardo Edoardo Sanguineti, Antonio Porta. Quest’antologia ha un valore storico e letterario enorme, perché è da qui che comincia la neovanguardia che poi diventerà il Gruppo’63 e che opererà un totale scardinamento del linguaggio, una poesia del tutto nuova (“poesia dell’oggetto” contrapposta alla narrativa realista e impegnata del Neorealismo italiano), per forma e contenuto, una vera e propria “mutazione” letteraria.
7 Tape Mark I è la prima poesia scritta con un calcolatore IBM, e non più con la tradizionale macchina da scrivere.
8 Pubblicato nel 1971 da Feltrinelli, questo romanzo diventerà uno dei manifesti dell’estrema sinistra e della letteratura “selvaggia”.
9 pubblicato nel 1987 con Bompiani, Gli invisibili è ispirato alla vicenda di alcuni terroristi carcerati
10 si tratta di un episodio del libro in cui l’io narrante, figlio di contadini, porta al macero la frutta in sovrappiù, ma viene costantemente superato e vessato dai modi truffaldini della camorra, conniventi con polizia e finanza, a discapito del lavoro e del sudore delle povere persone per bene
11 Lo spettacolo è andato in scena al Piccolo Jovinelli – Roma, dall’11 al 28 gennaio 2007
12 Nanni Balestrini ha svolto e svolge molti “lavori” in campo di arte visiva. Inoltre, molti suoi lavori sono tradotti in ambito teatrale. Per quanto riguarda il 2006, ricordiamo: Con gli occhi del linguaggio, opere visive 1961-2006. Esecuzione di Elettra al Machine Theater di Berlino. Mostre personali Con gli occhi del linguaggio alla Fondazione Mudima di Milano e alla Galleria Mascherino di Roma; MOT alla Galleria Splitter Art di Vienna. Obelisco Incipit per la Biblioteca comunale di Vignola e bassorilievo Allucco per la stazione Lala della metropolitana di Napoli. Mostre collettive: “Pagine d’artista”, Spazio Anfossi, Milano; “La creazione della realtà”, Artandgallery, Milano; “Italy made art:now”, Museum of Contemporari Art, Shanghai; “Viva”, Centro Pecci, Prato; “Dadada”, Castello Visconteo, Pavia; Festivaletteratura di Mantova; “Cantieri d’arte”, Lignarius, Roma
13 Nel 2003, Balestrini ha dato vita alla rivista online Zoooom - libri e visioni in rete con Maria Teresa Carbone.